IL TRIBUNALE 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di  reclamo
proposto da Airri  Medical  contro  Lanzi  Claudia  in  relazione  al
provvedimento pronunciato ai sensi dell'art. 700 c.p.c.  in  data  21
luglio 2008 dal Giudice del lavoro di Viterbo. 
    Premesso che con ricorso depositato in data 27 agosto 2008  Airri
Medical proponeva reclamo avverso l'ordinanza pronunciata ex art. 700
c.p.c. in data 21 luglio 2008 con la quale il giudice del  lavoro  di
Viterbo, accogliendo il ricorso d'urgenza proposto da Lanzi  Claudia,
le aveva ordinato di riammettere in servizio la ricorrente nel  posto
dalla medesima occupato da  alcuni  anni  ed  ininterrottamente  come
fisioterapista, in virtu' di reiterati contratti a termine; 
        deduceva che per giungere a quella decisione il giudice aveva
ritenuto la violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 per  omessa
indicazione delle ragioni dell'assunzione pervenendo alla conversione
dei contratti a termine in un rapporto a tempo indeterminato; 
        censurava quindi il provvedimento sotto tre profili: 
          a) per l'impossibilita' di dare  attuazione  all'ordine  di
reintegrazione  per  effetto  dell'art.  4-bis,  d.lgs.  n.  368/2001
(intitolato «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la
violazione delle norme in materia di apposizione  e  di  proroga  del
termine») introdotto dall'art. 21 della legge 6 agosto 2008, n.  133,
di conversione con modifiche del d.l. 25 giugno 2008, n. 112; 
          b) per difetto del periculum  in  mora  non  essendo  stata
fornita prova dello stato di bisogno; 
          c) perche' in  caso  di  licenziamento  illegittimo  di  un
lavoratore  a  tempo  determinato  doveva   escludersi   una   tutela
reintegratoria e non essendo ammessa la procedura  d'urgenza  per  il
riconoscimento di  crediti  risarcitori  il  ricorso  avrebbe  dovuto
essere integralmente rigettato; 
        che si costituiva Lanzi Claudia deducendo 
          1)   l'inapplicabilita'   della   normativa    citata    al
procedimento cautelare dovendosi ritenere, stante il riferimento alle
sentenze passate in giudicato) che essa si riferisca ai soli  giudizi
di  merito  (pendenti  alla  data  di   entrata   in   vigore   della
disposizione)  il  cui  esito  sia  suscettibile  di   passaggio   in
giudicato; giudizio che nel caso di specie non poteva dirsi ancora in
corso  attesa  la  natura  meramente  anticipatoria  li'   dove   sia
instaurato un procedimento d'urgenza ante causam; 
          2)  che  la  norma  in  questione   sarebbe   comunque   da
interpretare  come  una  sorta  di   limitazione   della   indennita'
risarcitoria in caso  di  illegittimo  comportamento  del  datore  di
lavoro;  essa  non  avrebbe  peraltro   soppresso   le   disposizioni
preesistenti che nell'ipotesi in cui le  ragioni  giustificative  del
termine non risultino da atto  scritto  prevedono  l'inefficacia  del
termine stesso e la  necessita'  di  ritenere  il  rapporto  a  tempo
indeterminato sin dall'origine; ogni diversa interpretazione  sarebbe
in  contrasto  con  i  principi  costituzionali   e   comunitari   ed
imporrebbero di rimettere la questione alla Corte costituzionale; 
          3) che l'illegittima  cessazione  del  rapporto  di  lavoro
determina la lesione del diritto  del  lavoratore  ad  una  esistenza
libera e dignitosa per se e la famiglia e nel caso  di  specie,  cio'
che tanto piu' valeva nel caso di specie in cui il reddito lavorativo
era venuto meno subito dopo la nascita della figlia; 
          4) che infondate erano le  censure  concernenti  la  tutela
reintegratoria, posto che il ricorso d'urgenza aveva  ad  oggetto  la
qualificazione  del  rapporto  di  lavoro  come  rapporto   a   tempo
indeterminato  e  che  il  provvedimento  non   aveva   disposto   la
reintegrazione; 
        che all'esito dell'udienza il collegio  si  e'  riservata  la
decisione. 
    Tanto premesso 
                            O s s e r v a 
    Infondate  appaiono  le  ultime  due  censure   formulate   dalla
reclamante. 
    Sotto il profilo del periculum in mora,  deve  infatti  ritenersi
che  l'interruzione  del  rapporto  di  lavoro  coinvolge  la   sfera
personale, sociale e  relazionale  della  persona  ed  e'  idoneo  ad
incidere sul diritto del soggetto ad una esistenza  dignitosa,  anche
indipendentemente dalla maggiore o minore incidenza  sulla  capacita'
reddituale. La giurisprudenza di legittimita' e'  peraltro  orientata
nel senso  di  ritenere  ammissibile  il  provvedimento  di  urgenza,
benche' finalizzato a tutelare diritti concernenti  beni  infungibili
(quale non e' il denaro), anche a tutela  dei  crediti  pecuniari  di
lavoro nella misura in cui i relativi  proventi  siano  necessari  ad
assicurare il bene della «esistenza libera  e  dignitosa»  presidiato
dall'art.   36   Cost.,   potendo   derivare   dal   loro   ritardato
soddisfacimento un pregiudizio non riparabile altrimenti. Nel caso di
specie, la circostanza che il lavoro  costituisse  l'unica  fonte  di
reddito della ricorrente, e'  dunque  sufficiente  per  ravvisare  il
pericolo di danno grave e irreparabile. 
    Quanto poi alle osservazioni in ordine alla natura  della  tutela
accordata, va rammentato come la piu'  recente  giurisprudenza  della
Corte di cassazione (Cass. 21 maggio 2008  n.  12985),  formatasi  in
relazione alla legge n. 368/2001 - che all'art.  1  non  prevede  una
norma sanzionatoria come quella pregressa di  cui  all'art.  1  della
legge n. 230 del 1962 - ha affermato l'applicabilita'  del  principio
della  conversione  del  contratto  da  tempo  determinato  a   tempo
indeterminato:  da  tale  orientamento  giurisprudenziale,   le   cui
motivazioni sono condivise dal Collegio e che devono  intendersi  qui
recepite, non sussistono serie  argomentazioni  per  discostarsi.  In
merito alle doglianze della reclamante non puo' che ribadirsi  quindi
quanto dedotto  da  controparte  riguardo  all'oggetto  della  tutela
d'urgenza,  da  intendersi  destinata  non   all'accertamento   della
illegittimita' di un licenziamento, bensi' dalla  qualificazione  del
rapporto di lavoro come rapporto a tempo indeterminato sin dalla data
della  sua  costituzione  e  dal   conseguente   diritto   alla   sua
prosecuzione; deve d'altro  canto  escludersi  che  il  provvedimento
reclamato abbia accordato  una  tutela  reintegratoria  allorche'  ha
disposto la riammissione della ricorrente  nell'originario  posto  di
lavoro. 
    La prima delle censure mosse richiede invece un piu' approfondito
esame della nuova normativa in tema di contratti a termine. Ad avviso
della  reclamante  la  conversione  del  rapporto  non  sarebbe  piu'
praticabile per effetto dell'art. 21,  comma  1-bis,  della  legge  6
agosto 2008, n. 133 («Conversione in legge,  con  modificazioni,  del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,  recante  disposizioni  urgenti
per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita',  la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria»)
e per effetto dell'art. 4-bis («Disposizione transitoria  concernente
l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di  apposizione
e di proroga del termine») da esso introdotto nel corpo del d.lgs. n.
368/2001, il quale recita: 
        «Con riferimento ai  soli  giudizi  in  corso  alla  data  di
entrata in vigore della  presente  disposizione,  e  fatte  salve  le
sentenze  passate  in  giudicato,  in  caso   di   violazione   delle
disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore  di  lavoro  e'
tenuto  unicamente  a  indennizzare  il  prestatore  di  lavoro   con
un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un  massimo
di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio  1966,
n. 604, e successive modificazioni». 
    Dal carattere anticipatorio della decisione  di  merito  e  dalla
intrinseca inidoneita'  dei  provvedimenti  cautelari  a  formare  un
giudicato, le parti hanno tratto conclusioni  diametralmente  opposte
riguardo alla applicabilita' della disposizione in esame nel caso  di
specie:  la  societa'  reclamante  sottolineando  per  un  verso   la
reclamabilita' del provvedimento e deducendone l'attuale pendenza; la
controparte,  desumendo  dal  tenore  letterale  della  disposizione,
l'estraneita' dei procedimenti cautelari dalla corrispondente area di
operativita' e contestando la pendenza di un giudizio di merito. 
    Rileva tuttavia il collegio che  l'argomento  letterale  non  sia
sufficiente ad escludere i  procedimenti  cautelari  dal  novero  dei
giudizi interessati dalla nuova disposizione. La circostanza  che  il
legislatore abbia escluso dall'ambito di operativita' della  norma  i
procedimenti conclusi con sentenza passata in giudicato, non vale  ad
escludere dalla sua applicazione ogni  altro  giudizio  che  non  sia
destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di  passare
in giudicato. 
    Per comprendere le ragioni di tale affermazione e' d'altra  parte
sufficiente esaminare l'ipotesi che, alla data di entrata  in  vigore
della disposizione in esame, siano contestualmente  pendenti  sia  il
procedimento cautelare instaurato ante causam e non ancora  definito,
sia il correlativo  giudizio  di  merito:  e'  proprio  la  finalita'
anticipatoria del provvedimento cautelare rispetto  alla  domanda  di
merito ad escludere in questo caso, per motivi di ragionevolezza, che
alla parte sia consentito raggiungere in via cautelare cio'  che  non
le sarebbe mai riconosciuto all'esito  del  giudizio  di  merito.  Da
questa  semplice  considerazione  deve  allora   desumersi   che   la
disposizione trovi applicazione non solo nei giudizi  di  merito,  ma
anche nei procedimenti di  urgenza  che  tendono  ad  anticipare  gli
effetti della decisione di merito  e  che  con  il  riferimento  alle
sentenze passate in  giudicato,  il  legislatore  abbia  inteso  solo
rafforzare il carattere di  transitorieta'  della  norma,  escludendo
dall'ambito di applicazione della norma  a  tutte  quelle  situazioni
definite con decisioni ormai irrevocabili (ad es. non  reclamabili  e
non modificabili neanche attraverso successivi giudizi  a  cognizione
piena) sebbene non adottate all'esito di un giudizio di merito. 
    Riguardo al contenuto  della  disposizione  non  sembrano  invece
esservi dubbi sul  fatto  che,  pur  senza  modificare  l'impalcatura
originaria della legge e pur incidendo in via  transitoria  sui  soli
rapporti oggetto delle controversie in corso,  il  legislatore  abbia
inteso circoscrivere le conseguenze derivanti dalla violazione  delle
altre disposizioni in tema di  contratto  a  termine,  accordando  al
lavoratore «unicamente» un indennizzo a scopo risarcitorio. Il tenore
letterale  della  disposizione  ed  in  particolare   l'utilizzazione
dell'avverbio   «unicamente»,   non   sembrano   quindi    consentire
interpretazioni alternative, come quella  prospettata  dalla  odierna
lavoratrice, secondo cui alla inefficacia del  termine  (ex  art.  1,
comma  2  del  d.lgs.  n.   368/2001)   conseguirebbero   ancora   la
riqualificazione del  rapporto,  la  sua  prosecuzione  e  dunque  il
diritto alla riammissione al lavoro. 
    D'altro canto la tesi esposta, che nella  novella  intravede  una
limitazione del risarcimento spettante al lavoratore e  che  tuttavia
sostiene il perdurante diritto del lavoratore all'accertamento  della
inefficacia del  termine,  e  dunque  alla  riqualificazione  e  alla
prosecuzione del rapporto, sarebbe  sostanzialmente  improduttiva  di
effetti reali se non ammettesse il cumulo tra retribuzioni maturate e
indennizzo.  Deve  infatti  osservarsi  che  secondo   l'orientamento
formatosi  nella  giurisprudenza  di  legittimita'  in   materia   di
contratti a termine il lavoratore  ha  diritto  al  ripristino  della
funzionalita' del rapporto ed al  risarcimento  del  danno  subito  a
causa     dell'impossibilita'     della     prestazione     derivante
dall'ingiustificato rifiuto del datore di  lavoro  di  riceverla.  Il
risarcimento e'  in  linea  generale  commisurato  alle  retribuzioni
perdute decorrenti dalla data di costituzione in mora del  datore  di
lavoro ex art. 1217, c.c. (v., tra le altre, Cass., 26  maggio  2003,
n. 8352; Cass.,17 ottobre 2001,  n.  12697;  Cass.,  15331/04,  cit).
Ebbene, li' dove  il  risarcimento  del  danno  sia  legislativamente
predeterminato (con una indennita' pari al «massimo di sei mensilita'
dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto»),  ovvero   li'   dove
l'indennita'  si  sostituisse  al   risarcimento   commisurato   alle
retribuzioni  perse,  l'operativita'  del  sistema  ne   risulterebbe
compromesso posto che, superato il semestre, il datore di lavoro  non
avrebbe alcun interesse a ripristinare il rapporto non potendo subire
alcun  ulteriore  pregiudizio  economico.   Mentre   l'infungibilita'
dell'obbligo di riammissione in servizio finirebbe per dissuadere  il
lavoratore  dall'intraprendere  azioni  esecutive   e   l'ordine   di
riammissione in servizio, quand'anche possibile,  sarebbe  inutiliter
datum. 
    L'unica alternativa per ritenere non  solo  possibile,  ma  anche
utile, il ricorso alle originarie forme  di  tutela  dei  lavoratori,
(nei procedimenti presi in considerazione dalla norma) sarebbe dunque
quella  di  considerare  l'indennita'  come  forma  di   risarcimento
ulteriore  rispetto  a  quella   rappresentata   dalle   retribuzioni
maturate; ipotesi francamente  insostenibile  a  fronte  del  dettato
normativo. 
    Non solo in virtu' del contenuto della disposizione, ma anche  in
ragione della  concreta  operativita'  del  sistema,  occorre  quindi
concludere che, nei  procedimenti  pendenti,  quand'anche  sia  stata
giudizialmente accertata l'inefficacia del termine e si sia proceduto
alla  riqualificazione  del  rapporto,  al  lavoratore  possa  essere
accordata una tutela esclusivamente risarcitoria in misura  variabile
«tra un minimo di 2,5 ed un massimo  di  sei  mensilita'  dell'ultima
retribuzione  globale  di  fatto»,  senza  alcuna   possibilita'   di
ripristino del rapporto di lavoro. 
    Se cosi' e',  tuttavia,  si  apre  tuttavia  la  questione  della
conformita' della legge alle disposizioni comunitarie e  ai  principi
costituzionali. 
    Sotto il primo profilo non sembra a questo collegio che la  nuova
disposizione sia da  ritenere  in  contrasto  con  la  direttiva  CEE
1999/70, sia pure secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte  di
giustizia europea (sent. 4 luglio 2006 e 7 settembre 2006).  E'  bene
in proposito rammentare i principi affermati sul  punto  dalla  Corte
europea, ovvero: 
        la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro impone agli Stati
membri l'adozione effettiva e vincolante di almeno una  delle  misure
elencate in  tale  disposizione  e  dirette  a  prevenire  l'utilizzo
abusivo di una successione di contratti o di  rapporti  di  lavoro  a
tempo determinato, qualora il  diritto  nazionale  non  preveda  gia'
misure equivalenti; 
        la clausola 5 dell'accordo quadro non prevede un diritto  del
lavoratore  alla  conversione  o  riqualificazione  del  rapporto  di
lavoro; tuttavia,  perche'  una  normativa  nazionale,  possa  essere
considerata  conforme  all'accordo  quadro,  l'ordinamento  giuridico
interno dello Stato  membro  interessato  deve  prevedere,  in  detto
settore,  un'altra  misura  effettiva  per  evitare  e,   nel   caso,
sanzionare  l'utilizzo  abusivo  di  contratti  a  tempo  determinato
stipulati in successione; 
        spetta alle autorita' nazionali adottare misure adeguate  per
far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un
carattere non soltanto proporzionato,  ma  altresi'  sufficientemente
effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia  delle  norme
adottate in attuazione dell'accordo quadro; 
        siffatte norme ... non devono tuttavia essere meno favorevoli
di quelle che disciplinano  situazioni  analoghe  di  natura  interna
(principio di equivalenza) ne'  rendere  praticamente  impossibile  o
eccessivamente   difficile   l'esercizio   dei   diritti    conferiti
dall'ordinamento giuridico comunitario  (principio  di  effettivita')
(v., in particolare,  sentenza  14  dicembre  1995,  causa  C-312/93,
Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto  12,  nonche'  Adeneler  e  a.,
cit., punto 95); 
        quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione
di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve  poter  applicare
una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti  di  tutela
dei lavoratori al  fine  di  sanzionare  debitamente  tale  abuso  ed
eliminare le conseguenze della violazione  del  diritto  comunitario:
secondo i termini stessi dell'art. 2, primo  comma,  della  direttiva
1999/70, gli Stati membri  devono  «prendere  tutte  le  disposizioni
necessarie per essere  sempre  in  grado  di  garantire  i  risultati
prescritti da [detta] direttiva»; 
        che l'accordo quadro ... non osta, in linea di  principio  ad
una normativa nazionale che  escluda,  in  caso  di  abuso  derivante
dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro
a tempo determinato ...,  che  questi  ultimi  siano  trasformati  in
contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato ...,  qualora
tale  normativa  contenga  un'altra  misura  effettiva  destinata  ad
evitare e, se del caso, a  sanzionare  un  utilizzo  abusivo  di  una
successione di contratti a tempo determinato; e  cio'  anche  qualora
tale esclusione sia prevista riguardo ai soli rapporti di lavoro  con
datori di lavoro pubblico. 
    Alla luce di tali principi non sembra quindi in contrasto con  la
normativa comunitaria una norma che, al pari  del  settore  pubblico,
escluda la trasformazione o conversione del  rapporto  a  termine  in
lavoro a tempo indeterminato, prevedendo al contempo,  tanto  in  via
sanzionatoria e  risarcitoria,  il  diritto  del  lavoratore  ad  una
indennita' sia pure quantitativamente predeterminata tra un minimo  e
un massimo. Misura  questa  astrattamente  idonea  a  dissuadere  pur
sempre il datore  di  lavoro  dal  ricorso  abusivo  ai  contratti  a
termine. 
    Il Collegio ritiene d'altro canto  che  la  citata  disposizione,
introdotta  dalla  legge  nell'estate  scorsa,  non   possa   neanche
costituire oggetto di disapplicazione per un  suo  preteso  contrasto
con la normativa comunitaria sotto il duplice profilo  di  violazione
della clausola di  non  regresso  e  della  violazione  delle  regole
procedurali della legge comunitaria. 
    Secondo  l'interpretazione  del  giudice  comunitario  (Corte  di
giustizia  22  novembre  2005,  comma  144/04,  caso  Mangold),   con
riferimento alla clausola c.d. «di non regresso», si e' affermato che
una riforma peggiorativa «della protezione offerta ai lavoratori  nel
settore dei contratti a tempo determinato non  e',  in  quanto  tale,
vietata dall'accordo quadro quando non e' in alcun modo collegata con
l'applicazione di questo». La clausola di non  regresso  puo'  quindi
essere invocata solo nell'ambito di cio' che disciplina la  direttiva
(interpretazione fatta propria anche dalla Corte costituzionale nella
sentenza 25 febbraio 2008, n. 44). 
    Va  allora  ribadito  che  l'accordo   quadro   (recepito   dalla
direttiva) non stabilisce un obbligo generale degli Stati  membri  di
prevedere  una  eventuale  trasformazione  in   contratti   a   tempo
indeterminato dei contratti di lavoro a tempo  determinato:  il  tema
delle «conseguenze» non  rientra  quindi  nell'area  di  operativita'
della direttiva comunitaria invocata e quindi non pare  possibile  la
richiesta disapplicazione della normativa interna. 
    Diverso  appare  invece  il  discorso   circa   la   legittimita'
costituzionale della norma. 
    Il Collegio ritiene tuttavia che non sia manifestamente infondato
il contrasto della nuova normativa con  i  parametri  espressi  dagli
artt. 3, 117, 101, 102,  secondo  comma  e  104,  primo  comma  della
Costituzione. 
    Il Legislatore infatti ha introdotto una  regolamentazione  delle
conseguenze  scaturenti  dalla  illegittimita'  dell'apposizione  del
termine che si affianca a quella della conversione  del  rapporto  (e
fatta  propria  dall'orientamento  della  Cassazione,  che  in  buona
sostanza si fonda sulla  nullita'  parziale  del  contratto  e  sulle
conseguenze   che   ne   derivano   secondo   il   diritto   comune),
regolamentazione pero' che riguarda non tutti i contratti  a  termine
stipulati ad una certa data ma solamente quelli per  i  quali  e'  in
corso un giudizio, indipendentemente dalla data  in  cui  sono  stati
stipulati: per tutti i contratti per i  quali  non  era  pendente  un
giudizio alla data di entrata in vigore della legge, sia se stipulati
prima che successivamente a tale data, le conseguenze  continuano  ad
essere invece quelle derivanti dall'azione di annullamento  parziale.
Il Legislatore ha quindi ritenuto di disciplinare diversamente (nelle
conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la
diversita' delle conseguenze  al  fatto  del  tutto  casuale  che  il
lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio. 
    In questo caso non si tratta di un trattamento differenziato  nel
tempo: lavoratori nella stessa situazione di fatto, che  hanno  cioe'
stipulato un contratto a tempo determinato con clausola  del  termine
illegittima, senza giustificazione alcuna, se non quella di  avere  o
meno iniziato la causa ad una certa data, vengono  ad  avere  diversa
tutela dei propri diritti, con evidente violazione del  principio  di
ragionevolezza. 
    Tanto piu' che il discrimine temporale non e'  neppure  idoneo  a
realizzare pienamente  il  fine  che  la  norma  introdotta  dovrebbe
conseguire.  Se  infatti  scopo  della  disposizione  e'  quello   di
sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimita'  dei
contratti a termine, allora non si comprende il discrimine  temporale
che sottrae i soli contenziosi in essere e non  tutto  il  potenziale
contenzioso (cioe', ad esempio tutti i  contratti  stipulati  ad  una
certa data). Il che penalizza proprio chi comportandosi lealmente non
ha atteso anni ma  ha  iniziato  da  subito  la  causa,  finendo  col
premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare  il  contenzioso
(per magari lucrare le retribuzioni conseguenti alla messa in mora). 
    Inoltre la  differenziazione  di  regime  non  e'  finalizzata  a
realizzare interessi costituzionalmente  rilevanti  e  non  si  fonda
neppure sulle dimensioni dell'impresa. 
    In sostanza, tra  i  lavoratori  a  tempo  determinato  ne  viene
enucleata una quota (quelli che avevano  un  giudizio  pendente)  che
viene sottratta alla tutela ordinaria accordata  a  tutti  gli  altri
lavoratori  (che  non  avevano  ancora  iniziato  la  causa   e   che
costituiscono  il  tertium  comparationis  nella  valutazione   della
violazione del principio di eguaglianza),  tutela  ordinaria  che  il
Legislatore aveva ben  presente  e  che  non  ha  inteso  modificare,
perche'  diversamente  non   avrebbe   dettato   l'art.   4-bis   che
espressamente e'  applicabile  ai  soli  procedimenti  in  corso,  ma
avrebbe  invece  introdotto  una  disciplina  stabile   destinata   a
regolamentare la materia. 
    La disposizione qui censurata  inoltre  incide  retroattivamente,
sopprimendolo, su un diritto (quello alla «tutela reale» quale  sopra
formulata) che era stato gia' acquisito  al  patrimonio  della  parte
ricorrente. La Corte costituzionale ha piu' volte  ricordato  (v.  es
sentenze n. 390/1995, 211/1997, 416/1999) che la  Carta  fondamentale
tutela, all'art. 3, comma 1 (ma  allo  scopo  potrebbe  anche  essere
invocato l'art. 24, comma 2) il diritto del cittadino a poter riporre
affidamento nella  sicurezza  (certezza)  giuridica,  quale  elemento
essenziale di uno stato di diritto,  che  non  puo'  essere  leso  da
disposizioni  retroattive,  che  tramodino  in  un   regolamento   di
situazioni  sostanziali  fondate  su  leggi  precedenti.   La   parte
ricorrente ha agito in giudizio nell'ambito di  un  quadro  normativo
che le garantiva, in caso di accertata invalidita' della clausola del
termine, la prosecuzione giuridica del rapporto ed in  ogni  caso  il
diritto al ripristino dello stesso, con conseguenze risarcitorie,  in
caso di violazione, idonee alla piena riparazione del danno subito; e
non appare ravvisabile alcuna giustificazione nel fatto che la  legge
l'abbia privata di tale diritto  non  solo  in  corso  di  causa,  ma
proprio e solo per il fatto di avere  una  causa  in  corso  (che  se
avesse tardato a proporla, il suo diritto sarebbe stato salvo). 
    La norma denunciata pone inoltre seri dubbi di  costituzionalita'
con  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  (secondo  cui  la  potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  regioni  nel  rispetto
della Costituzione, nonche' dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali), in relazione all'art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo  e  delle
liberta' fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848. 
    La norma della Convenzione, alla quale lo Stato Italiano si  deve
conformare, nell'affermare che ogni persona ha diritto ad  un  giusto
processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed  imparziale,  impone
al potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della
giustizia  allo  scopo  di  influire   sulla   risoluzione   di   una
controversia o di una determinata categoria di controversie in corso.
In proposito la CEDU ha affermato che «il principio della  preminenza
del diritto e la nozione di equo processo consacrati dall'art. 6 CEDU
si oppongono, salvo per imperiose  esigenze  di  interesse  generale,
all'ingerenza  del  potere  legislativo  nell'amministrazione   della
giustizia con lo scopo d'influenzare la  risoluzione  giudiziaria  di
una causa» (§ 126 sentenza CEDU Grande Camera  nella  causa  Scordino
contro Italia, 29 marzo 2006): nel  caso  in  esame  vengono  proprio
mutati per factum principis i diritti sostanziali a tutela dei  quali
si e' agito  in  giudizio,  senza  che  ricorrano  quelle  «imperiose
ragioni d'interesse generale» richieste dalla  CEDU  come  condizione
per superare il divieto d'ingerenza. 
    Ancora, ed infine, la disposizione in esame appare  in  contrasto
con gli artt. 101, 102,  secondo  comma  e  104,  primo  comma  della
Costituzione, perche' un  intervento  della  legislazione  che,  come
nella specie, riguardi esclusivamente un certo  tipo  di  giudizi  in
corso ad una certa data si palesa privo del carattere di  astrattezza
proprio   della   normazione   legislativa,   ed   assume   carattere
provvedimentale  generale  (ha  ad  oggetto   esclusivo   un   numero
concretamente ancorche' indirettamente determinato di  fatti  specie)
con riguardo a giudizi in corso, cosi' invadendo un ambito  che  deve
ritenersi riservato al potere giudiziario. Ancora una volta la  Corte
costituzionale ha avuto modo di affermare che non e' legittimo che la
legge introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere  su
concrete fattispecie  sub  iudice  (sentenze  nn.  397/1994,  6/1994,
429/1993 ed altre); ed il fatto  che  la  disposizione  in  questione
valga solo per i giudizi in corso, escludendo  anche  quelli  futuri,
appare rendere del tutto evidente che nella specie la legge ha inteso
intenzionalmente  quanto  esclusivamente  incidere  sulle  sorti   di
fattispecie sub  iudice,  cosi'  invadendo  l'ambito  riservato  alla
giurisdizione. 
    La  rilevanza  della  questione  appare  evidente:  il   presente
giudizio era in corso alla data di entrata in vigore della  legge  n.
133/2008  ed  e'  tuttora  pendente.  Se  ad  essa  dovesse   trovare
applicazione  la  normativa  censurata,  una   volta   affermata   la
illegittimita' del contratto a tempo  determinato  stipulato  tra  le
parti, il collegio non potrebbe  confermare  la  reclamata  ordinanza
nella parte in cui ha dichiarato che  l'apposizione  del  termine  e'
priva di effetto e che il contratto e' da in-tendere sin  dall'inizio
a tempo indeterminato con conseguente diritto della  ricorrente  alla
prosecuzione  del  rapporto  di  lavoro  (salvo   il   diritto   alla
corresponsione delle retribuzioni dalla messa in mora); ritenuta  per
contro  la  possibilita'   di   liquidare   alla   lavoratrice   solo
un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un  massimo
di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di  fatto,  dovrebbe
revocare l'ordinanza cautelare che aveva  riqualificato  il  rapporto
disponendone la prosecuzione (non essendo peraltro tale  procedimento
destinato a  tutelare  diritti  di  natura  patrimoniale  o  comunque
diritti  concernenti  beni   infungibili   salvo   che   i   proventi
dell'attivita' lavorativa siano necessari ad assicurare il bene della
«esistenza libera e dignitosa» presidiato dall'art. 36 Cost., qualora
dal loro ritardato soddisfacimento possa derivare un pregiudizio  non
riparabile altrimenti). Se la disposizione censurata fosse dichiarata
costituzionalmente illegittima, ed il  giudicante  trovasse  invalida
nella specie (come  comunque  allo  stato  gli  appare)  la  clausola
appositiva del termine,  essa  non  potrebbe  trovare  l'applicazione
altrimenti necessaria nel presente giudizio e dovrebbe applicarsi  il
diritto vivente previgente (o altro). 
    Per tutte le sovraesposte ragioni il Collegio  Ritiene  di  dover
sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  della   norma
indicata in dispositivo, sospendendo il giudizio.