IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di reclamo proposto da Airri Medical contro Lanzi Claudia in relazione al provvedimento pronunciato ai sensi dell'art. 700 c.p.c. in data 21 luglio 2008 dal Giudice del lavoro di Viterbo. Premesso che con ricorso depositato in data 27 agosto 2008 Airri Medical proponeva reclamo avverso l'ordinanza pronunciata ex art. 700 c.p.c. in data 21 luglio 2008 con la quale il giudice del lavoro di Viterbo, accogliendo il ricorso d'urgenza proposto da Lanzi Claudia, le aveva ordinato di riammettere in servizio la ricorrente nel posto dalla medesima occupato da alcuni anni ed ininterrottamente come fisioterapista, in virtu' di reiterati contratti a termine; deduceva che per giungere a quella decisione il giudice aveva ritenuto la violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 per omessa indicazione delle ragioni dell'assunzione pervenendo alla conversione dei contratti a termine in un rapporto a tempo indeterminato; censurava quindi il provvedimento sotto tre profili: a) per l'impossibilita' di dare attuazione all'ordine di reintegrazione per effetto dell'art. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 (intitolato «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine») introdotto dall'art. 21 della legge 6 agosto 2008, n. 133, di conversione con modifiche del d.l. 25 giugno 2008, n. 112; b) per difetto del periculum in mora non essendo stata fornita prova dello stato di bisogno; c) perche' in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore a tempo determinato doveva escludersi una tutela reintegratoria e non essendo ammessa la procedura d'urgenza per il riconoscimento di crediti risarcitori il ricorso avrebbe dovuto essere integralmente rigettato; che si costituiva Lanzi Claudia deducendo 1) l'inapplicabilita' della normativa citata al procedimento cautelare dovendosi ritenere, stante il riferimento alle sentenze passate in giudicato) che essa si riferisca ai soli giudizi di merito (pendenti alla data di entrata in vigore della disposizione) il cui esito sia suscettibile di passaggio in giudicato; giudizio che nel caso di specie non poteva dirsi ancora in corso attesa la natura meramente anticipatoria li' dove sia instaurato un procedimento d'urgenza ante causam; 2) che la norma in questione sarebbe comunque da interpretare come una sorta di limitazione della indennita' risarcitoria in caso di illegittimo comportamento del datore di lavoro; essa non avrebbe peraltro soppresso le disposizioni preesistenti che nell'ipotesi in cui le ragioni giustificative del termine non risultino da atto scritto prevedono l'inefficacia del termine stesso e la necessita' di ritenere il rapporto a tempo indeterminato sin dall'origine; ogni diversa interpretazione sarebbe in contrasto con i principi costituzionali e comunitari ed imporrebbero di rimettere la questione alla Corte costituzionale; 3) che l'illegittima cessazione del rapporto di lavoro determina la lesione del diritto del lavoratore ad una esistenza libera e dignitosa per se e la famiglia e nel caso di specie, cio' che tanto piu' valeva nel caso di specie in cui il reddito lavorativo era venuto meno subito dopo la nascita della figlia; 4) che infondate erano le censure concernenti la tutela reintegratoria, posto che il ricorso d'urgenza aveva ad oggetto la qualificazione del rapporto di lavoro come rapporto a tempo indeterminato e che il provvedimento non aveva disposto la reintegrazione; che all'esito dell'udienza il collegio si e' riservata la decisione. Tanto premesso O s s e r v a Infondate appaiono le ultime due censure formulate dalla reclamante. Sotto il profilo del periculum in mora, deve infatti ritenersi che l'interruzione del rapporto di lavoro coinvolge la sfera personale, sociale e relazionale della persona ed e' idoneo ad incidere sul diritto del soggetto ad una esistenza dignitosa, anche indipendentemente dalla maggiore o minore incidenza sulla capacita' reddituale. La giurisprudenza di legittimita' e' peraltro orientata nel senso di ritenere ammissibile il provvedimento di urgenza, benche' finalizzato a tutelare diritti concernenti beni infungibili (quale non e' il denaro), anche a tutela dei crediti pecuniari di lavoro nella misura in cui i relativi proventi siano necessari ad assicurare il bene della «esistenza libera e dignitosa» presidiato dall'art. 36 Cost., potendo derivare dal loro ritardato soddisfacimento un pregiudizio non riparabile altrimenti. Nel caso di specie, la circostanza che il lavoro costituisse l'unica fonte di reddito della ricorrente, e' dunque sufficiente per ravvisare il pericolo di danno grave e irreparabile. Quanto poi alle osservazioni in ordine alla natura della tutela accordata, va rammentato come la piu' recente giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. 21 maggio 2008 n. 12985), formatasi in relazione alla legge n. 368/2001 - che all'art. 1 non prevede una norma sanzionatoria come quella pregressa di cui all'art. 1 della legge n. 230 del 1962 - ha affermato l'applicabilita' del principio della conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato: da tale orientamento giurisprudenziale, le cui motivazioni sono condivise dal Collegio e che devono intendersi qui recepite, non sussistono serie argomentazioni per discostarsi. In merito alle doglianze della reclamante non puo' che ribadirsi quindi quanto dedotto da controparte riguardo all'oggetto della tutela d'urgenza, da intendersi destinata non all'accertamento della illegittimita' di un licenziamento, bensi' dalla qualificazione del rapporto di lavoro come rapporto a tempo indeterminato sin dalla data della sua costituzione e dal conseguente diritto alla sua prosecuzione; deve d'altro canto escludersi che il provvedimento reclamato abbia accordato una tutela reintegratoria allorche' ha disposto la riammissione della ricorrente nell'originario posto di lavoro. La prima delle censure mosse richiede invece un piu' approfondito esame della nuova normativa in tema di contratti a termine. Ad avviso della reclamante la conversione del rapporto non sarebbe piu' praticabile per effetto dell'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133 («Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria») e per effetto dell'art. 4-bis («Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine») da esso introdotto nel corpo del d.lgs. n. 368/2001, il quale recita: «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Dal carattere anticipatorio della decisione di merito e dalla intrinseca inidoneita' dei provvedimenti cautelari a formare un giudicato, le parti hanno tratto conclusioni diametralmente opposte riguardo alla applicabilita' della disposizione in esame nel caso di specie: la societa' reclamante sottolineando per un verso la reclamabilita' del provvedimento e deducendone l'attuale pendenza; la controparte, desumendo dal tenore letterale della disposizione, l'estraneita' dei procedimenti cautelari dalla corrispondente area di operativita' e contestando la pendenza di un giudizio di merito. Rileva tuttavia il collegio che l'argomento letterale non sia sufficiente ad escludere i procedimenti cautelari dal novero dei giudizi interessati dalla nuova disposizione. La circostanza che il legislatore abbia escluso dall'ambito di operativita' della norma i procedimenti conclusi con sentenza passata in giudicato, non vale ad escludere dalla sua applicazione ogni altro giudizio che non sia destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di passare in giudicato. Per comprendere le ragioni di tale affermazione e' d'altra parte sufficiente esaminare l'ipotesi che, alla data di entrata in vigore della disposizione in esame, siano contestualmente pendenti sia il procedimento cautelare instaurato ante causam e non ancora definito, sia il correlativo giudizio di merito: e' proprio la finalita' anticipatoria del provvedimento cautelare rispetto alla domanda di merito ad escludere in questo caso, per motivi di ragionevolezza, che alla parte sia consentito raggiungere in via cautelare cio' che non le sarebbe mai riconosciuto all'esito del giudizio di merito. Da questa semplice considerazione deve allora desumersi che la disposizione trovi applicazione non solo nei giudizi di merito, ma anche nei procedimenti di urgenza che tendono ad anticipare gli effetti della decisione di merito e che con il riferimento alle sentenze passate in giudicato, il legislatore abbia inteso solo rafforzare il carattere di transitorieta' della norma, escludendo dall'ambito di applicazione della norma a tutte quelle situazioni definite con decisioni ormai irrevocabili (ad es. non reclamabili e non modificabili neanche attraverso successivi giudizi a cognizione piena) sebbene non adottate all'esito di un giudizio di merito. Riguardo al contenuto della disposizione non sembrano invece esservi dubbi sul fatto che, pur senza modificare l'impalcatura originaria della legge e pur incidendo in via transitoria sui soli rapporti oggetto delle controversie in corso, il legislatore abbia inteso circoscrivere le conseguenze derivanti dalla violazione delle altre disposizioni in tema di contratto a termine, accordando al lavoratore «unicamente» un indennizzo a scopo risarcitorio. Il tenore letterale della disposizione ed in particolare l'utilizzazione dell'avverbio «unicamente», non sembrano quindi consentire interpretazioni alternative, come quella prospettata dalla odierna lavoratrice, secondo cui alla inefficacia del termine (ex art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 368/2001) conseguirebbero ancora la riqualificazione del rapporto, la sua prosecuzione e dunque il diritto alla riammissione al lavoro. D'altro canto la tesi esposta, che nella novella intravede una limitazione del risarcimento spettante al lavoratore e che tuttavia sostiene il perdurante diritto del lavoratore all'accertamento della inefficacia del termine, e dunque alla riqualificazione e alla prosecuzione del rapporto, sarebbe sostanzialmente improduttiva di effetti reali se non ammettesse il cumulo tra retribuzioni maturate e indennizzo. Deve infatti osservarsi che secondo l'orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimita' in materia di contratti a termine il lavoratore ha diritto al ripristino della funzionalita' del rapporto ed al risarcimento del danno subito a causa dell'impossibilita' della prestazione derivante dall'ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla. Il risarcimento e' in linea generale commisurato alle retribuzioni perdute decorrenti dalla data di costituzione in mora del datore di lavoro ex art. 1217, c.c. (v., tra le altre, Cass., 26 maggio 2003, n. 8352; Cass.,17 ottobre 2001, n. 12697; Cass., 15331/04, cit). Ebbene, li' dove il risarcimento del danno sia legislativamente predeterminato (con una indennita' pari al «massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto»), ovvero li' dove l'indennita' si sostituisse al risarcimento commisurato alle retribuzioni perse, l'operativita' del sistema ne risulterebbe compromesso posto che, superato il semestre, il datore di lavoro non avrebbe alcun interesse a ripristinare il rapporto non potendo subire alcun ulteriore pregiudizio economico. Mentre l'infungibilita' dell'obbligo di riammissione in servizio finirebbe per dissuadere il lavoratore dall'intraprendere azioni esecutive e l'ordine di riammissione in servizio, quand'anche possibile, sarebbe inutiliter datum. L'unica alternativa per ritenere non solo possibile, ma anche utile, il ricorso alle originarie forme di tutela dei lavoratori, (nei procedimenti presi in considerazione dalla norma) sarebbe dunque quella di considerare l'indennita' come forma di risarcimento ulteriore rispetto a quella rappresentata dalle retribuzioni maturate; ipotesi francamente insostenibile a fronte del dettato normativo. Non solo in virtu' del contenuto della disposizione, ma anche in ragione della concreta operativita' del sistema, occorre quindi concludere che, nei procedimenti pendenti, quand'anche sia stata giudizialmente accertata l'inefficacia del termine e si sia proceduto alla riqualificazione del rapporto, al lavoratore possa essere accordata una tutela esclusivamente risarcitoria in misura variabile «tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto», senza alcuna possibilita' di ripristino del rapporto di lavoro. Se cosi' e', tuttavia, si apre tuttavia la questione della conformita' della legge alle disposizioni comunitarie e ai principi costituzionali. Sotto il primo profilo non sembra a questo collegio che la nuova disposizione sia da ritenere in contrasto con la direttiva CEE 1999/70, sia pure secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia europea (sent. 4 luglio 2006 e 7 settembre 2006). E' bene in proposito rammentare i principi affermati sul punto dalla Corte europea, ovvero: la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro impone agli Stati membri l'adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure elencate in tale disposizione e dirette a prevenire l'utilizzo abusivo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, qualora il diritto nazionale non preveda gia' misure equivalenti; la clausola 5 dell'accordo quadro non prevede un diritto del lavoratore alla conversione o riqualificazione del rapporto di lavoro; tuttavia, perche' una normativa nazionale, possa essere considerata conforme all'accordo quadro, l'ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in detto settore, un'altra misura effettiva per evitare e, nel caso, sanzionare l'utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione; spetta alle autorita' nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresi' sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro; siffatte norme ... non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) ne' rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettivita') (v., in particolare, sentenza 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonche' Adeneler e a., cit., punto 95); quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario: secondo i termini stessi dell'art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti da [detta] direttiva»; che l'accordo quadro ... non osta, in linea di principio ad una normativa nazionale che escluda, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato ..., che questi ultimi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato ..., qualora tale normativa contenga un'altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato; e cio' anche qualora tale esclusione sia prevista riguardo ai soli rapporti di lavoro con datori di lavoro pubblico. Alla luce di tali principi non sembra quindi in contrasto con la normativa comunitaria una norma che, al pari del settore pubblico, escluda la trasformazione o conversione del rapporto a termine in lavoro a tempo indeterminato, prevedendo al contempo, tanto in via sanzionatoria e risarcitoria, il diritto del lavoratore ad una indennita' sia pure quantitativamente predeterminata tra un minimo e un massimo. Misura questa astrattamente idonea a dissuadere pur sempre il datore di lavoro dal ricorso abusivo ai contratti a termine. Il Collegio ritiene d'altro canto che la citata disposizione, introdotta dalla legge nell'estate scorsa, non possa neanche costituire oggetto di disapplicazione per un suo preteso contrasto con la normativa comunitaria sotto il duplice profilo di violazione della clausola di non regresso e della violazione delle regole procedurali della legge comunitaria. Secondo l'interpretazione del giudice comunitario (Corte di giustizia 22 novembre 2005, comma 144/04, caso Mangold), con riferimento alla clausola c.d. «di non regresso», si e' affermato che una riforma peggiorativa «della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non e', in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non e' in alcun modo collegata con l'applicazione di questo». La clausola di non regresso puo' quindi essere invocata solo nell'ambito di cio' che disciplina la direttiva (interpretazione fatta propria anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 25 febbraio 2008, n. 44). Va allora ribadito che l'accordo quadro (recepito dalla direttiva) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere una eventuale trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato: il tema delle «conseguenze» non rientra quindi nell'area di operativita' della direttiva comunitaria invocata e quindi non pare possibile la richiesta disapplicazione della normativa interna. Diverso appare invece il discorso circa la legittimita' costituzionale della norma. Il Collegio ritiene tuttavia che non sia manifestamente infondato il contrasto della nuova normativa con i parametri espressi dagli artt. 3, 117, 101, 102, secondo comma e 104, primo comma della Costituzione. Il Legislatore infatti ha introdotto una regolamentazione delle conseguenze scaturenti dalla illegittimita' dell'apposizione del termine che si affianca a quella della conversione del rapporto (e fatta propria dall'orientamento della Cassazione, che in buona sostanza si fonda sulla nullita' parziale del contratto e sulle conseguenze che ne derivano secondo il diritto comune), regolamentazione pero' che riguarda non tutti i contratti a termine stipulati ad una certa data ma solamente quelli per i quali e' in corso un giudizio, indipendentemente dalla data in cui sono stati stipulati: per tutti i contratti per i quali non era pendente un giudizio alla data di entrata in vigore della legge, sia se stipulati prima che successivamente a tale data, le conseguenze continuano ad essere invece quelle derivanti dall'azione di annullamento parziale. Il Legislatore ha quindi ritenuto di disciplinare diversamente (nelle conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la diversita' delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio. In questo caso non si tratta di un trattamento differenziato nel tempo: lavoratori nella stessa situazione di fatto, che hanno cioe' stipulato un contratto a tempo determinato con clausola del termine illegittima, senza giustificazione alcuna, se non quella di avere o meno iniziato la causa ad una certa data, vengono ad avere diversa tutela dei propri diritti, con evidente violazione del principio di ragionevolezza. Tanto piu' che il discrimine temporale non e' neppure idoneo a realizzare pienamente il fine che la norma introdotta dovrebbe conseguire. Se infatti scopo della disposizione e' quello di sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimita' dei contratti a termine, allora non si comprende il discrimine temporale che sottrae i soli contenziosi in essere e non tutto il potenziale contenzioso (cioe', ad esempio tutti i contratti stipulati ad una certa data). Il che penalizza proprio chi comportandosi lealmente non ha atteso anni ma ha iniziato da subito la causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare il contenzioso (per magari lucrare le retribuzioni conseguenti alla messa in mora). Inoltre la differenziazione di regime non e' finalizzata a realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non si fonda neppure sulle dimensioni dell'impresa. In sostanza, tra i lavoratori a tempo determinato ne viene enucleata una quota (quelli che avevano un giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria accordata a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato la causa e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione della violazione del principio di eguaglianza), tutela ordinaria che il Legislatore aveva ben presente e che non ha inteso modificare, perche' diversamente non avrebbe dettato l'art. 4-bis che espressamente e' applicabile ai soli procedimenti in corso, ma avrebbe invece introdotto una disciplina stabile destinata a regolamentare la materia. La disposizione qui censurata inoltre incide retroattivamente, sopprimendolo, su un diritto (quello alla «tutela reale» quale sopra formulata) che era stato gia' acquisito al patrimonio della parte ricorrente. La Corte costituzionale ha piu' volte ricordato (v. es sentenze n. 390/1995, 211/1997, 416/1999) che la Carta fondamentale tutela, all'art. 3, comma 1 (ma allo scopo potrebbe anche essere invocato l'art. 24, comma 2) il diritto del cittadino a poter riporre affidamento nella sicurezza (certezza) giuridica, quale elemento essenziale di uno stato di diritto, che non puo' essere leso da disposizioni retroattive, che tramodino in un regolamento di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti. La parte ricorrente ha agito in giudizio nell'ambito di un quadro normativo che le garantiva, in caso di accertata invalidita' della clausola del termine, la prosecuzione giuridica del rapporto ed in ogni caso il diritto al ripristino dello stesso, con conseguenze risarcitorie, in caso di violazione, idonee alla piena riparazione del danno subito; e non appare ravvisabile alcuna giustificazione nel fatto che la legge l'abbia privata di tale diritto non solo in corso di causa, ma proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (che se avesse tardato a proporla, il suo diritto sarebbe stato salvo). La norma denunciata pone inoltre seri dubbi di costituzionalita' con l'art. 117, primo comma, Cost., (secondo cui la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali), in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle liberta' fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. La norma della Convenzione, alla quale lo Stato Italiano si deve conformare, nell'affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie in corso. In proposito la CEDU ha affermato che «il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo consacrati dall'art. 6 CEDU si oppongono, salvo per imperiose esigenze di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia con lo scopo d'influenzare la risoluzione giudiziaria di una causa» (§ 126 sentenza CEDU Grande Camera nella causa Scordino contro Italia, 29 marzo 2006): nel caso in esame vengono proprio mutati per factum principis i diritti sostanziali a tutela dei quali si e' agito in giudizio, senza che ricorrano quelle «imperiose ragioni d'interesse generale» richieste dalla CEDU come condizione per superare il divieto d'ingerenza. Ancora, ed infine, la disposizione in esame appare in contrasto con gli artt. 101, 102, secondo comma e 104, primo comma della Costituzione, perche' un intervento della legislazione che, come nella specie, riguardi esclusivamente un certo tipo di giudizi in corso ad una certa data si palesa privo del carattere di astrattezza proprio della normazione legislativa, ed assume carattere provvedimentale generale (ha ad oggetto esclusivo un numero concretamente ancorche' indirettamente determinato di fatti specie) con riguardo a giudizi in corso, cosi' invadendo un ambito che deve ritenersi riservato al potere giudiziario. Ancora una volta la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che non e' legittimo che la legge introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere su concrete fattispecie sub iudice (sentenze nn. 397/1994, 6/1994, 429/1993 ed altre); ed il fatto che la disposizione in questione valga solo per i giudizi in corso, escludendo anche quelli futuri, appare rendere del tutto evidente che nella specie la legge ha inteso intenzionalmente quanto esclusivamente incidere sulle sorti di fattispecie sub iudice, cosi' invadendo l'ambito riservato alla giurisdizione. La rilevanza della questione appare evidente: il presente giudizio era in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 133/2008 ed e' tuttora pendente. Se ad essa dovesse trovare applicazione la normativa censurata, una volta affermata la illegittimita' del contratto a tempo determinato stipulato tra le parti, il collegio non potrebbe confermare la reclamata ordinanza nella parte in cui ha dichiarato che l'apposizione del termine e' priva di effetto e che il contratto e' da in-tendere sin dall'inizio a tempo indeterminato con conseguente diritto della ricorrente alla prosecuzione del rapporto di lavoro (salvo il diritto alla corresponsione delle retribuzioni dalla messa in mora); ritenuta per contro la possibilita' di liquidare alla lavoratrice solo un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, dovrebbe revocare l'ordinanza cautelare che aveva riqualificato il rapporto disponendone la prosecuzione (non essendo peraltro tale procedimento destinato a tutelare diritti di natura patrimoniale o comunque diritti concernenti beni infungibili salvo che i proventi dell'attivita' lavorativa siano necessari ad assicurare il bene della «esistenza libera e dignitosa» presidiato dall'art. 36 Cost., qualora dal loro ritardato soddisfacimento possa derivare un pregiudizio non riparabile altrimenti). Se la disposizione censurata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, ed il giudicante trovasse invalida nella specie (come comunque allo stato gli appare) la clausola appositiva del termine, essa non potrebbe trovare l'applicazione altrimenti necessaria nel presente giudizio e dovrebbe applicarsi il diritto vivente previgente (o altro). Per tutte le sovraesposte ragioni il Collegio Ritiene di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma indicata in dispositivo, sospendendo il giudizio.